Che cosa vuol dire vivere nell’ombra di un sogno irrealizzabile? Crederci, contro ogni evidenza, finché non avrà prosciugato la nostra quotidianità? Languire sperando che le promesse del neoliberismo – mobilità sociale, sicurezza economica, giustizia sociale, stabilità affettiva – si possano realizzare, nel terrore che i tasselli del puzzle della nostra felicità si rivelino per quello che sono: le macerie di una realtà in cui la crisi è diventata una condizione ordinaria, e la reazione al trauma è sfumata in un adattamento in consapevole, un ottimismo acritico, infondato, ostinato, crudele. Lauren Berlant vuole farci aprire gli occhi, dimostrarci che a dettare i criteri della «buona vita» sono le stesse condizioni che li rendono inaccessibili. L’ottimismo crudele è l’altra faccia del realismo capitalista che neutralizza qualsiasi visione di una prospettiva migliore: la pulsione a restare aggrappati a desideri che costituiscono un ostacolo alla nostra felicità.
Seguendo una complessa rete di «scene» attraverso la lente della psicanalisi, della queer theory e della fantascienza, Berlant fa emergere le dinamiche del processo proteiforme che lega realtà e ideologia, individualità e desiderio. E, nel farlo, porta alla luce le possibilità atrofizzate da una realtà che ci schiaccia nella «morte lenta»: quella perversa rassicurazione che si prova a spegnersi a ritmo costante, senza imprevisti. Squarciare il velo dell’ottimismo crudele però non vuol dire disconoscere il potere trasformativo della fantasia – dietro la paura della perdita possiamo scoprire nuove forme di reciprocità, di solidarietà e di altruismo grazie a cui immaginare un’altra vita. Una vita che valga la pena vivere.