Il mito della macchina

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Lewis Mumford (Flushing, New York, 1895 – New York 1990) è uno scrittore statunitense. Noto soprattutto come urbanista e sociologo, manifestò già nella sua formazione eclettica e nell’avversione allo specialismo, la tensione verso una cultura «organica» capace di conciliare arte e tecnologia e di ricomporre l’immagine frantumata dell’uomo. I suoi maestri riconosciuti furono i grandi scrittori americani di metà Ottocento, Emerson e Whitman (studiati nel saggio sulla cultura americana tra il 1830 e il 1860 Il giorno d’oro, The golden day, 1926) e i ricercatori sociali contemporanei: T. Veblen e soprattutto P. Geddes, pioniere del movimento urbanistico britannico. Il suo singolare itinerario personale lo portò dall’indagine dell’utopismo (Storia delle utopie, The story of utopias, 1922) alla ricerca, nell’opera di H. Melville (Herman Melville, 1929), di un’anatomia dei rischi dell’individualismo, fino alla definizione di una sua visione della cultura contemporanea fondata sull’idea di comunità, che nella città trova il proprio emblema. Nei suoi grandi testi La cultura delle città (The culture of cities, 1938) e La città nella storia (The city in history, 1961) il cosmo urbano diventa protagonista; esso è studiato come estensione della figura umana, specchio del nostro vivere quotidiano, teatro, e seguito nelle sue trasformazioni: dalla città medievale, «organismo» con le sue funzioni aspecifiche, alla metropoli moderna, costituita sul modello astratto della macchina. Questa visione di M. ha lasciato tracce profonde nel modo attuale di concepire la città. Gli ultimi suoi libri sono interamente dedicati allo sfogo autobiografico: Le mie opere e i miei giorni (My works and days, 1979), Scene dalla mia vita (Sketches from life, 1982).