«Non c’è niente di più difficile che spingere davvero una musica ad andare al di là dei propri limiti. Io lo so, perché ci ho provato».
In quel microcosmo caotico e vivacissimo che è la vicenda del jazz, Paul Bley ci appare come un musicista inclassificabile. Sfugge a tutto: non proviene da nessuna scuola specifica, non è collocabile in un’area stilistica, il suo percorso creativo non segue il classico sviluppo lineare.
Lo incontriamo in tanti momenti cruciali della storia: è stato un pioniere del free jazz sul pianoforte, si è avventurato prima di tutti nell’improvvisazione con i sintetizzatori, ha esplorato in modo spregiudicato la multimedialità audio-video, ha guidato la Jazz Composers Guild, la prima associazione di jazzisti d’avanguardia, ha gestito una casa discografica indipendente, la Improvising Artists Inc.
Senza contare che è stato preso a modello da altri importanti pianisti: su tutti Keith Jarrett, che lo venerava, e che ancora nei primi anni Settanta suonava come il Bley di un decennio prima. Eppure egli ci appare ancora un artista inafferrabile, una figura a tratti sfocata. Questa sua autobiografia è preziosa: mette ordine nella vita di un artista multiforme e ci offre importanti testimonianze interne al mondo della musica.