Troppo assoluto per accettare compromessi, troppo intransigente per accontentarsi di consolazioni, troppo impregnato di solidarietà per cercare giustificazioni nella scrittura, Dagerman appartiene alla categoria di quelli che non sanno perdonare a se stessi la sofferenza e l’umiliazione degli altri, che non possono non opporsi con tutto il loro essere all’ingiustizia del vivere. Ed è proprio quella sua compassione che gli dà la capacità di cogliere nei giochi solitari di un bambino, nell’ostinato silenzio di un vecchio, nei gesti meccanici di una donna, l’indicibile disperazione di piccole vite, di piccole tragedie cui si passa accanto senza neppure accorgersene, con l’arroganza degli «implacabili», o semplicemente l’indifferenza di chi non si è mai trovato dalla parte dei perdenti, degli anonimi e silenziosi che diventano visibili solo quando arrivano a compiere quell’atto estremo che è la loro definitiva autocondanna. È con la lucidità di chi non ha paura di farsi del male che Dagerman affronta in questi racconti i suoi costanti temi: la solitudine in un mondo di adulti in cui si lasciano crescere i silenzi fino a farne muri invalicabili d’incomprensione, l’amarezza di sentirsi traditi, estranei a se stessi, superflui agli altri, la desolazione del crollo dell’autoinganno, quando si chiude ogni via d’uscita e resta solo la consapevolezza che «l’uomo per riuscire a sopportarsi deve avere i nervi molto saldi». Ma è soprattutto nello sguardo dei bambini che i racconti toccano la loro più struggente intensità, quei bambini che vedono sempre troppo e capiscono sempre troppo, già rassegnati a non poter reggere la realtà senza la fuga nel sogno e nella fantasia.